C’è un limite che separa la produzione propriamente artistica dalla creazione di forme meramente funzionali. L’insieme delle emergenze dell’uno e dell’altro versante dell’esperienza fabrile dell’uomo attiene, com’è ovvio, alla sfera della creatività in genere, ma all’interno di questa occorre distinguere. Il discrimine fra ciò che costituisce materia di realizzazione e di ricezione estetica, e ciò che invece pertiene alla sfera del vissuto si identifica, credo, nella intenzionalità inequivoca della comunicazione artistica di contro alla più generica funzione espressiva della produzione utilitaria. Vale a dire che quel prodotto che costituisce oggetto di esperienza estetica ha come primo postulato la necessità di un livello di comunicazione che scarta o svaluta l’insieme dei rapporti utilitari attivati fra l’oggetto e il suo orizzonte di fruizione. Il limite, in questa prospettiva, è la misura del fare, il confine dello spazio entro cui agire stabilito dall’operatore. Misura d’intenti, ma anche misura metrica, segno esplicitato e quindi distinguibile, con una sua precisa topologia, sulla superficie del prodotto.
Per Alberto Argenton il limite è la sottile linea di demarcazione fra il razionale e l’irrazionale. La chiave interpretativa del suo fare ce la offre l’autore stesso nella serie di acquarelli intitolata “La corda pazza” (1983) e ancor più nella giustificazione critica che esibisce, con esplicito riferimento all’ambiguità di Pirandello; “abbiamo tutti come tre corde d’orologio in testa: la seria, la civile, la pazza…” (Il berretto a sonagli).
Giuocata su ben più che tre registri, la produzione di questo autore segue invece la molteplicità quasi inesauribile delle curve del suo grafismo musicale, che però può essere ricomposto lungo questo sottile territorio, questa lingua di terra, travalicata nell’uno e nell’altro senso senza restrizioni o pudori. È questa ragione programmatica, cioè la volontà di non nascondere il suo giocarsi tra razionale e irrazionale, più che la sicurezza del “mestiere”, che pure esiste in un artista che data la sua prima personale a più di trenta anni fa (e ne aveva quindici, di anni), a motivare sulla superficie delle sue opere la più assoluta assenza di “pentimenti”, la fluida propensione ad offrirsi interamente allo sguardo lungo le cadenze arpeggiate del suo tipico segno. La felicità inventiva ed esecutiva di Alberto Argenton rischierebbe di cadere addirittura nella decorazione, tanto è sempre impeccabile, se una diversa valenza della seduzione non la caricasse proprio di quella intenzionalità che abbiamo definito peculiare della comunicazione artistica e che conviene rivelare mediante la lettura diretta di alcune sue opere.
Il suo percorso prende avvio generalmente da un richiamo, appunto seduttivo, da un tracciato elementare che orienta la visione, guida la lettura. E si tratta di un’indicazione in partenza rigorosamente geometrica e razionale che viene poi puntualmente deformata e sconvolta dalle onde dell’espressione, irrazionale. Tutto questo è molto evidente nell’acquarello del 1989 (fig. 1) che esibisce con esplicita franchezza due bande ‘parallele’ di rosso e di nero. La seduzione nasce qui da una monodimensionalità illusoria, dalla geometria negata delle parallele ondeggianti e delle ortogonali deformate. Il bianco, interruzione fra le due campiture, più che smorzare, esalta il toccante contrasto fra il tono acuto del rosso e il grave del nero. D’altra natura è il bianco che incornicia la topologia dell’accordo appena descritto e che quindi, come un bordo, intende semplicemente inquadrare lo spazio espresso. L’ordine di lettura del dipinto, apparentemente orizzontale, come d’abitudine in Argenton, è anch’esso contraddetto dal soprassalto impetuoso delle due ondate cromatiche, che chiedono di essere intese una sopra l’altra.
A questo punto si può ipotizzare l’esistenza di un sistema segnico prevalente, quasi costante, che poggia sulla capacità che le linee hanno di delimitare le zone cromatiche. Ciò è già vero in “Racconto” (1988, fig. 2), un olio incredibilmente denso, sostenuto da una griglia di demarcazione forte. Qui la seduzione nasce dallo stravolgimento degli assi cartesiani, ambiguità geometrica che contrasta con la nettezza delle campiture, che acquistano gradualmente e ordinatamente luminosità, convergendo dalla cornice, volutamente sorda, verso il centro. Quest’ultimo pulsa sensualmente in un’imprevedibile eccezione del rosso.
Più complessa l’intelaiatura segnica di “This can’t be love” (1988, fig. 3). In questo caso la linea non separa differenti onde cromatiche, ma le attraversa: è il colore a trasmettere il senso orizzontale del dipinto, creando effetti di parallelismo verosimile, mentre le verticali sono meno segnate. L’incantesimo nasce dunque dalla penetrazione tra un campo e l’altro, dall’illusorietà delle definizioni e dalla direzionalità sempre in fuga: ecco perché non può essere amore.
In un altro acquarello del 1989 (fig. 4) il gioco delle penetrazioni genera varianti cromatiche, nel rafforzamento dei toni o nell’intrusione di sorvegliate sorprese, secondo una scelta che, favorita dal rincorrersi delle ondate grafiche, simula la naturalità di un paesaggio di mare.
Ricondotto sul piano più consentaneo delle suggestioni e della seduzione, il gusto delle intrusioni diviene in “Canzone amorosa” (olio, 1989, fig. 5) un misurato pas de deux, già nel raffinato disegno a matita che lo prefigura (fig. 6), dove le quattro zone che si affrontano, i quattro angoli della terra, sono differenziate dalle sottili vibrazioni del tracciato, ma si annullano nel ‘nodo d’amore’ del centro. Ancor più chiaro quest’effetto, quando il nodo rivela la sua natura di abbraccio fra due pulsanti alterità, cromaticamente segnalate. Sicché, allacciandosi ed invadendo incongruamente campi d’altra pertinenza, queste piccole zone di colore stravolgono l’ordinata intelaiatura dei grigi e del nero, spezzandone il conformismo: corde pazze, variabili impazzite della seduzione e del sentimento.
Caterina Limentani Virdis, 1990, Alberto Argenton: topografia degli opposti, Anfione Zeto, 4-5, pp. 252-255