CopIl segretoIÈ innegabile che oggi si tenga molto da parte dell’artista a mantenersi inserito nella storia, in un contesto cioè di contemporaneità. La storia dell’arte, soprattutto in questo secolo, si è vieppiù complicata e il suo diagramma ha assunto un andamento tremulo, convulso, a tratti, almeno in apparenza, contraddittorio, che poi è lo stesso dei tempi, ma che nella sua ineluttabile continuità si mantiene anche logico e consequenziale.

L’aspirazione di far vivere i fermenti della propria creatività e dell’espressione in generale, nel contesto della contiguità storica appare legittima, oggi come ieri. Questa aspirazione tende a sminuire però un’altra realtà e, soprattutto, il riconoscimento di un altro movente della creatività: quanto sia importante cioè nell’opera di ogni artista, l’influsso della propria storia. Questo troppo spesso sfugge alla consapevolezza dell’artista ed anche del critico. Eppure la matrice vera dell’espressione è lì che va ricercata, nella storia personale, il resto il più delle volte è solo conseguenza di informazione, o di cultura o, semplicemente, di «fiuto».

Nell’espressione artistica di Alberto Argenton, la sua storia personale ha lasciato segni incancellabili e, anzi, è il caso di dire che si è incarnata continuamente nel «segno» stesso, determinandolo.

Una storia valutabile in periodi, non analizzabile qui nel dettaglio, ma che trova un puntuale riscontro sotto forma di traccia e di sedimento nella sua pittura: nel colore che, seppure scandito e articolato razionalmente secondo l’opportunità dei rapporti, sempre si richiama ad un periodo e quindi a una particolare ambientazione che lo evoca, ma soprattutto nel segno. E vale la pena a questo proposito chiarire che nella pittura di Argenton il segno è sempre inteso come traccia fluida e spontanea della forma e quindi del vissuto. Sin da quando ne erano referenti i rovi delle more, la ramificazione degli alberi, in Friuli, oggetto di prima, adolescenziale considerazione estetica, a quando, più avanti negli anni, in Somalia, si uniformava alla impressionante sequenza dei cespugli, nella steppa, che mai diventano alberi, così apparentemente simili tra loro eppure, ad un’attenta osservazione, tanto eterogenei.

Un segno di origine naturalistica quindi, dapprima volutamente impacciato ed «empirico», poi sempre più fluido e gestuale, che materializza nella sua spontaneità una specie di rapporto empatico con la superficie della tela, e, al tempo stesso, realizza quel desiderio di manualità, quella voglia di lavoro in termini concreti, che Argenton ha sempre avvertito. Un segno, senza dubbio protagonista, che sovraintende alla rappresentazione e ne disciplina l’intreccio narrativo e poetico interpretando sempre una storia che non si determina solo attraverso captazione di atmosfere ed impressioni visive, ma che, ricca di stimoli intellettuali, si integra in una cultura che ricorrentemente si fa essa stessa segno. Come il calligrafismo della scrittura araba, appresa e praticata per anni nel liceo italiano di Mogadiscio. Come nella esperienza della grafica, risalente agli inizi degli anni Settanta e che prosegue ancor oggi, in quella dedizione all’acquaforte e alla puntasecca; tecniche che hanno contribuito a disciplinare il segno rendendolo più rigoroso e perentorio, e a spingere il linguaggio verso una sintesi sempre più semplificata ed astratta.

Ma affiora qui la necessità di un altra riflessione, sulla interferenza storica che si traduce in poetica, oltreché in linguaggio, come già considerato. Mi riferisco alla esperienza scientifica, quella dello psicologo che per ragioni di studio indaga sulla psicopatologia e ne osserva i riflessi comportamentali ed espressivi. Scaturisce da questa osservazione una sorta di suggestione, che non gravita però sul versante rigorosamente scientifico, o almeno non soltanto su quello. Si introduce la tentazione dell’empirismo, della meta-cognizione, soprattutto riguardo all’espressione, della evocazione artistica. Si riconducono a questo momento i due cicli coevi de «La corda pazza» e de «La ragione imperfetta» (1983). La mediazione è ancora una volta affidata al segno. È questo che vagolando da un’estremità all’altra della tela sembra sottrarre colore e superfice ad una forma compatta, geometrica anche tridimensionale. Una sottrazione di concretezza, di solidità, di esattezza, che dà origine a una nuova e libera spazialità e ad un irrazionale che appare giocoso, lirico, sensuale, capace di rappresentare gli improvvisi afflati, i trasalimenti dell’animo e i desideri del corpo; una sensazione accentuata anche dal colore, che sembra essere più cupo e denso là dove la forma si mantiene compatta, e si offre invece alla luce con trasparenze improvvise dove la forma si libra sfrangiandosi. Si delineano questi due momenti: raziocinio e libertà; libertà assoluta che significherebbe, se non fosse per quella breve ma determinante «pausa» della consapevolezza, follia. Una contrapposizione, un dualismo che non è solamente osservato, ma vissuto e introiettato a livello psicologico ed estetico. Si individua nelle opere conseguenti questa caratteristica peculiare: come una volontà di spingere, e cogliere, e mettere alle strette, indurre insomma alla rivelazione di se stesse, la fantasia, la libertà, la poesia, in fondo alle stanze della razionalità.

La pulizia e la finitezza, così caratteristiche in tutte le opere di Argenton, sono il «laboratorio» asettico della sperimentazione, sollecitano l’avvento di questa rivelazione improbabile, eppure realizzata come accadimento estremo; quell’elemento di dissonanza che spesso si frappone alla serialità delle linee e dei colori, è anch’esso propiziatore dell’«evento» e ne è il segnale.

«Ho sempre cercato di fare il pittore in atelier e lo psicologo in studio» dice Argenton; ma la sua indole, il suo intuito di sensitivo del colore e del segno, gli suggeriscono «l’interdisciplinarietà, la riconducibilità di qualsiasi forma di conoscenza l’una all’altra». L’utilizzo dell’esperienza di vita, seppure in chiave storica, senza una volontà precisa, è costante.

Una storia non storicizzabile quindi, una storia privata, intima al punto da ritenersi non interessante e non interessabile ad altri, eppure consistente come motivo d’espressione. La custodisce una reticenza che in sé conferma questo volontario, fatalistico e poetico abbandono, alla spontaneità, all’empirismo, alla non razionalità, che l’arte assicura e garantisce sempre. Una storia che continuamente affiora come SEGRETO MANIFESTO.

Gennaio 1989                                                                                                                                                                                                      Lucio Del Gobbo

Lucio Del Gobbo (1989) Il segreto manifesto, Galleria Arte e Dintorni, Macerata.